Liguria fantastica: terra di draghi, dragoni e basilischi
“Pe Zena e per San Zorzu”, ovvero “Per Genova e per San Giorgio” era il grido di battaglia con cui gli antichi genovesi si lanciavano nella mischia.
Il santo, secondo la leggenda, sarebbe sceso con le schiere celesti a dare manforte ai genovesi durante la battaglia per la presa di Antiochia, nel corso della prima crociata. L’armata degli angeli avrebbe avuto come vessillo una bandiera con la croce rossa su fondo bianco, che ancora oggi, da allora, è il simbolo di Genova. Nella storia del santo, molto venerato in oriente, sono accreditate molte leggende. Una di queste è proprio quella del drago, che il giovane Giorgio avrebbe sconfitto salvando una nobile fanciulla dall’essere sbranata dall’immonda creatura e con lei un’intera popolazione da anni sotto il giogo dell’infernale bestia.
Il drago, animale “sapienzale” per eccellenza, rappresenta sì il “male assoluto”, ma anche la scienza esoterica e sincretica dell’oriente e in poche parole l’eresia che minava le fondamenta del cristianesimo alle sue origini.
Per questo i santi dei primi secoli sono parecchio indaffarati a ammansire orde di barbari giunti alle porte di indifese città, ma anche nello stesso tempo, a combattere draghi.
La Genova delle origini non fa eccezione. E’ un santo originario della vicina Struppa, stiamo parlando del IV o del V secolo d. C. che deve affrontare una specie di lucertolone metà serpe e metà gallo. Stiamo parlando del vescovo Siro e della sua lotta contro il basilisco.
Cos’era un basilisco? Pietro Piccardo, nel suo Bestiario, lo descrive così: “… Una bestia con la testa, il collo e il petto di un gallo, il corpo di dietro è quello come di un serpente. La sua origine deriverebbe, sempre secondo Piccardo, dalla deposizione di un uovo da parte di un gallo appena compiuti i sette anni di età e lo stesso uovo sarebbe poi covato da un rospo. Appena nato il basilisco correrebbe in cerca di un vecchio crepaccio affinchè nessuno lo possa vedere. Per quanto di dimensioni modeste, il basilisco è letale per tutti gli animali e anche per l’uomo; qualsiasi forma di vita incontri il suo sguardo muore. L’unico animale che lo può contrastare è la donnola, mentre il canto del gallo è letale per la sua vita. La legenda narra che Alessandro Magno nei suoi lunghi viaggi incontrò il favoloso animale e riuscì a guardarlo senza morire, osservandolo attraverso il riflesso degli scudi dei suoi soldati.
Anche il basilisco che si era insediato in un pozzo non lontano dalla basilica dei dodici apostoli, l’attuale S. Siro, con il suo venefico soffio, provocava numerose vittime trai genovesi. Un racconto che potrebbe ricordare l’aggressione di un cobra che prima di mordere e iniettare il suo veleno lo spruzza con un potente getto contro la sua vittima. Il “venefico soffio” potrebbe essere anche la metafora dell’eresia ariana che l’esotico basilisco rappresenterebbe. Sta di fatto che per liberare Genova dall’immonda creatura, il vescovo Siro decide di praticare un vero e proprio esorcismo costringendo il mostro a fuggire verso il mare senza più fare ritorno.
Non sappiamo se ci siano dei rapporti con il drago che non molto lontano, nello spezzino, dovette affrontare san Venerio. Della creatura che terrorizzava quei luoghi resta la descrizione che, nel 1685, quindi parecchi anni dopo, diede l’abate Giulio Marmorati nel suo libro Historiae Lunigiana. Si sarebbe trattato di un mostro marino che faceva razzie sia in terra che in mare, assalendo barche e devastando casali. S. Venerio, conosciuto allora come l’eremita dell’isola del Tino, lo affrontò e lo sconfisse, mettendolo in fuga. In ricordo di questo episodio ancora oggi esiste, segnata dalle mappe, tra Bocca di Magra e Punta Bianca, la grotta del serpente.
Nel 1907, nello spezzino, mentre era intento a dipingere un paesaggio su tela, il pittore Felice Del Santo ebbe la sventura di fare il terrificante incontro con la “bestia”. I giornali riportarono la storia, non senza fare riferimento al debole dell’artista per il vino, e si scatena la caccia alla “bestia”. Partì, quindi, un vero e proprio safari, mentre affioravano le descrizioni di questo misterioso animale “artigli lunghissimi, zampe posteriori di un metro circa e zampe anteriori corte”, ma non se ne trovò traccia, nonostante le ricerche venissero estese in antiche caverne e cunicoli che collegavano il castello alla città.
Da La Spezia ai parchi di Nervi. Nel 1972 a giugno faceva molto caldo ma per i viali alberati si respirava l’aria dei giorni di gran festa. Frotte di persone indaffaratissime andavano su è giù perché i Balletti stavano per cominciare. Gli alberghi pieni zeppi di turisti riversavano nelle strette vie di del piccolo centro levantino gruppetti di turisti, personaggi pittoreschi, artisti veri e presunti, un bestiario che ingannava il tempo aspettando la sera per vedere sul palco il bel Rudolf Nureyev librarsi in un magico volo per accorrere verso l’esile e bellissima Carla Fracci che piroettava leggiadra. Faceva caldo nel Roseto, una porzione fatata dei parchi, quando prendendo la via che portava verso i cancelli dell’uscita un anziano visitatore vide qualcosa che scivolava sui rami di un albero. Incredulo ai propri occhi indica ad alcuni turisti quello strano effetto ottico che però a ben vedere non è per nulla una visione ma un grosso serpente.
Il gruppetto di osservatori è perplesso di fronte all’esotico animale ma poi per tutti si fa largo una ragione plausibile: è l’ennesima attrazione di quel bel parco, un tocco in più per farsi un po’ di pubblicità. La piccola folla sotto l’albero che osserva i rami in alto viene notata da un autista dell’Amt, Vittorio Donzella, 35 anni, che aveva portato i suoi due bimbi a scattare qualche foto. L’uomo non si fa impressionare dalla confusione, punta l’obiettivo e immortala in diverse fotografie quello che diventerà il rettile più famoso della Liguria: il pitone di Nervi.
A Genova non si parla d’altro, i giornali si scatenano. Mario Porcile, il “patron” dei “Balletti” suda freddo: la “questione serpente” mette in forse tutta la manifestazione. Sono in ballo molti soldi e una figuraccia internazionale. Le battute di caccia della Municipale e della Polizia vanno a vuoto. Entra in gioco un ghepardo ammaestrato nella caccia ai serpenti. Il pitone, però, sembra essersi volatilizzato. Arriva l’esercito mentre la città, a questo punto, parteggia apertamente per il rettile. Quando i soldati se vanno, dopo giorni di battuta senza risultato i genovesi tirano un respiro di sollievo, il pitone è salvo! Purtroppo per il pitone, tra i cantunè si trova un bravo cacciatore: Ubaldo Sciutto. E’ lui che inchioda la povera bestia con due precisi colpi mentre rientrava nella sua tana.
Finisce con qualche lacrima la storia del povero “pitone di Nervi”, ultimo sfortunato epigone di una tradizione leggendaria.
(Ha collaborato Anna Laura Paoletti)