Le antiche trattorie che ci fanno ancora sognare
La “mangiata della domenica“
La “mangiata della domenica” in una trattoria fuori porta è stata per anni uno dei paradisi dell’immaginario collettivo di generazioni e generazioni, adulti e bambini compresi.
Mete oggi raggiungibili in mezz’ora di auto, magari con un piccolo transito in autostrada, erano raggiungibili non senza problemi se non si possedeva un mezzo di trasporto. I più fortunati avevano l’auto, poi c’erano delle remote carrozze di collegamento e ancora in assenza di queste, ovviamente, ci si arrangiava come si poteva.
Le distanze non erano banali, come si diceva, per alcuni da Genova arrivare a Nervi o Bogliasco piuttosto che a Savignone o S. Olcese era un viaggio vero e proprio, qualcosa che si sarebbe ricordato tutta la vita. Quando poi tutto era in ordine e si poteva partire la meta potevano essere i campi e i prati con qualcosa di buono che cucinava la mamma per l’occasione (la pasqualina e i ripieni, ad esempio) ma per quelli che potevano, si spalancava il paradiso terreno delle “trattorie fuori porta”.
Se già nel centro cittadino era palpabile la genuinità dei prodotti e la loro provenienza o dalle valli circostanti (i “besagnin” portavano la verdura tra Terralba e la Foce, insieme ai formaggi e al latte degli allevatori) o dai piccoli borghi dei pescatori a ponente e a levante di Genova da dove arrivava il pesce fresco, nelle “trattorie fuori porta” si respirava un’aria bucolica, gli animali, che potevano essere galline o mucche, si trovavano all’aria aperta e le prime scorrazzavano tranquillamente nello spiazzo davanti alla trattoria, mentre delle altre ne coglievi immediatamente la presenza per gli odori e i profumi tipici della stalla.
Era facile trovare alimenti che in città erano piuttosto rari come la selvaggina (cinghiali, lepri e fagiani oppure i funghi) oltre all’indubitabile freschezza di quello che era stato colto dal campo o dall’albero qualche minuto prima. Gli ambienti interni della trattoria erano spesso angusti anche perché la loro attività prosperava tra la primavera e l’estate, quando era più facile l’arrivo degli avventori e generalmente i posti a sedere erano all’esterno sotto fitti pergolati che garantivano l’ombra a chi pranzava. A S. Olcese, venti chilometri da Genova e nove da Bolzaneto agli inizi del ‘900 la destinazione non poteva che essere l’”Osteria degli amici”. Funzionava anche come locanda ed era rinomata per il pandolce e per un rinomato vino secco. A Montoggio, due locande con annesso servizio di trattoria si fronteggiavano l’una con l’altra. Pochi piatti e cibo rigorosamente secondo la stagione, i ripieni e la cacciagione come gran richiamo per gli avventori.
Fiancheggiando lo Scrivia, tre km prima di Busalla incontriamo Savignone. Ambiente tranquillo, il frinire dei grilli e delle cicale a fare da sottofondo, una bottiglia di quello buono del contadino sul tavolo era questo quello che sognavano sopra sferraglianti auto chi si dirigeva fin lassù. Nel 1920 c’erano una locanda per chi voleva fermarsi a dormire e due osterie. La principale era quella della piazza di fronte alla chiesa: lattughe ripiene e il capretto erano le specialità del cuoco.
A Busalla c’era un unico ristorante vicino al quale in un altro edificio si fabbricava dell’ottima birra, tradizione che è arrivata sino a oggi (Fabbrica Birra Busalla).
Altro centro di gran richiamo delle gite fuori porta dei genovesi era Torriglia. Luogo di passaggio leggendario per le “vie del sale” il paese aveva un vissuto profondo di storie e viaggiatori che transitavano da lì. Cercatori di funghi e cacciatori trovavano riposo e conforto all’”Albergo dei cacciatori” dove confluiva tutto il ben di Dio raccolto nei dintorni. Il menù non ha bisogno di commenti: risotti ai funghi, selvaggina a seconda, fritto misto di grasso, cima e si finiva con il dolce tipico del luogo, i famosissimi canestrelli, innaffiati, ovviamente, da ottimo vino.
A Uscio, la cuoca dell’Albergo Italia cucinava i funghi, porcini e ovuli, al forno e il piatto era rinomato in tutta la zona.
Se, invece dell’entroterra, si preferiva la vista mare si potevano raggiungere le località di levante come Quinto, Nervi oppure S. Ilario. Andare a Quinto per l’epoca era come per noi andare in qualche remota località esotica e non stiamo scherzando.
Sole, palme, sapori di mare e atmosfera esotica. Al Grand Hotel Quinto (non per tutte le tasche) una panoramica terrazza regalava un orizzonte che andava dal promontorio di Portofino sino alle rive d’Albaro. Raffinato ed esclusivo il ristorante proponeva nel menù un favoloso fritto misto con il pescato di stagione. Un altro piatto tipico del ristorante era il risotto con le seppie. Con sapiente maestria lo chef poi declinava il menù anche su piatti “popolari” come la buridda di seppie, realizzata, a quanto pare, con rara maestria.
A Nervi, sul viale delle Palme potevi passare e sentire le note di uno scatenato fox-trot provenire dall’Albergo Vittoria. Una volta stremati dalle danze scatenate, gli ospiti potevano accomodarsi nella sala ristorante dove i piatti rinomati erano i pansoti, le trenette, l’insalata di pesce e il riso col preboggion.
Nel lusso e nell’estrema raffinatezza di Villa Pagoda, sempre a Nervi, si offrivano i rarissimi zembi d’arzillo: si trattava di ravioli di pesce (gli zembi) che si gustavano asciutti, col sugo delle arselle “nel cui fondo entrano i funghi”. Il termine arzillo si riferisce sia all’alga che, un tempo, le onde marine portavano a riva, sia, in senso lato, al profumo di mare freschissimo.
Sulla passeggiata a mare, sempre a Nervi, la Marinella era il locale preferito per la squisitezza del pesce. Andavano alla grande le ostriche di cui gli inglesi, si racconta andavano pazzi. Per finire, il viaggio poteva arrivare sino a S. Ilario. Davanti a una vista mozzafiato la meta dei viandanti era la Trattoria del Duca dove piatti di pesce fresco e fiaschi di vino non mancavano mai.
Ancora nel dopoguerra Paolo Conte narrava nelle sue canzoni colori e sapori di questi posti “remoti” per quello che rappresentavano allora rispetto a quello che oggi sono anche nella facilità con cui si può arrivare da una parte e dall’altra. Il mondo per i nostri nonni era più piccolo, non mancavano i problemi ma se riuscissimo, in qualche modo, a recuperare ancora una parte di quella magia non sarebbe proprio male.